Una giovinezza tedesca

 

"l genitori hanno perso credibilità a causa della loro identificazione con il nazionalsocialismo, la chiesa cattolica l'ha persa proteggendosi dietro la figura del nazismo. Si menziona raramente, ma l'autorità dei padroni è stata messa in dubbio durante gli ultimi 1 00 anni viste le terribili condizioni che hanno permesso all'industria di svilupparsi. Chi rappresenta l'autorità non è più convincente... "

1966, una giovane e promettente giornalista tedesca partecipa a un dibattito televisivo: il suo nome è Ulrike Marie Meinhof.

Une jeunesse allemande (2015, regia di Jean-Gabriel Périot, documentario, 90 minuti) l'ho visto a Berlino, ma la giovane cricca del Milano Film festival l'ha meritoriamente selezionato per il proprio concorso. E così, anche un po' di pubblico italiano ha potuto vedere questo film dalle difficoltà di produzione e realizzazione straordinarie: costruito puramente con immagini ·e audio d'archivio, discorsivo e fluido come il miglior cinema di finzione e comunque capace di racchiudere ed esprimere una ricerca decennale in novantatré minuti. Non è da tutti.

Jean-Gabriel Périot è l'artefice di questo raro esempio di "cinema d'archiviautore". La giovinezza del titolo è più unica che rara: vita, morte e (s)miracoli della RAF, Rate Armee Fraktion, in origine conosciuta con la comoda etichetta giornalistica di banda Baader-Meinhof. Périot si concentra sulle intelligenze asciutte e acute della sinistra tedesca più radicale, che dall'editoriale d'invettiva o dal film di denuncia passa alle bombe artigianali e alla clandestinità.

Il cardine dell'indagine non ha nulla di didascalico. Nasce da un dilemma personale, che forse molti - me compreso - condividono. Che cosa succede quando ci si trova d'accordo ... in toto o semi o parzialmente ... con il pensiero di un terrorista? È facile condannare a spada tratta atti terroristici e i loro autori quando l'ideologia che li partorisce è antitetica alla nostra. Il problema sorge quando la condividiamo, anche solo in parte.

Ho avuto l'opportunità di parlare con Périot. Mi ha confermato proprio questo. "È sempre meno complicato capire la violenza che i cela dietro un atto terroristico politico a cui mi sento in un certo modo vicino, ma ciò non è giusto... dovevo entrare in questo mondo e capire e dissezionare questa mia quasi apologia della violenza. [ ... ] Mi sono concentrato sulla RAF per l'abbondanza di immagini. Erano giornalisti, cineasti, semi-star come Baader e Ensslin, che nel 69 si san visti dedicare un film stile Bonnie & Clyde".

Il montaggio oculato di Périot porta alla luce due generazioni in guerra in una Germania confusa se non persa dopo lo tsunami nazista. Il regista francese inizia sardonicamente: ricostruisce il clima schizofrenico del tempo attraverso i rotocalchi e i dibattiti televisivi, introduce poi le figure emblematiche di una delle fazioni terroristiche più temute dell'era moderna con fermi immagine à la bee-beep & willy-il-coyote. Eccoli Ulrike Meinhof, Andreas Baader, Holger Meins, Gudrun Ensslin, Horst Mahler.

Una volta calamitata la nostra attenzione, l'ironia iniziale di Périot lascia il passo al dubbio: questi visi della nuova Germania democratica, idealisti e attivisti, ci parlano? "Se si ha il desiderio o la presunzione di educare un popolo, bisogna creare le condizioni di una democrazia reale, solo allora un'autentica autorità può essere accettata. L’abuso dell'autorità sarà eliminato, il servilismo e gli sfruttamenti non esisteranno più. Ciò non è possibile senza un cambiamento concreto della società." (Ulrike Meinhof)

La vita dedicata all'ideologia, le proteste, lo stato intransigente: i primi morti. E quindi la disperazione, l'inefficacia della prassi politica tradizionale, la presa delle armi. È il terrorismo, sia rosso che di stato. "Una delle preoccupazioni più contemporanee che traspaiono dal film è l'arma politica che ci è rivolta contro ogni volta che sentiamo la parola terrorismo" commenta Périot. "Un terrorista è, a priori, totalmente pazzo, malvagio... il termine terrorismo nasconde tutto: ci impedisce di pensare e di capire di chi e di cosa stiamo parlando.

Sullo schermo passa il faccione di Helmut Schmidt, in parlamento, col pugno minaccioso e la voce che ruggisce contro la RAF. "Noi non scenderemo a patti con questi terroristi!"... Quanti politicanti di oggi di grande e piccola taglia seguono lo stesso copione... Non c'è dialogo, non c'è soluzione se non attraverso l'annientamento indiscriminato dell'avversario. Un manto giallo, rosso, ma soprattutto nero copre le spalle nude della liberté delacroixiana.

Périot fa un uso misurato – quanto mai efficace - dei tentativi cine-dialogo dì alcuni mostri sacri: dalle interpretazioni del Godard maoista passando per l'astrattismo visivo di Antoniani e la sofferenza viscerale di Fassbinder. Uno dei momenti più potenti del film è proprio il contributo del regista bavarese in Germania in autunno (Deutschland im Herbst), film del 1978 di un collettivo di cineasti sul terrorismo tedesco, che raggiunge il suo picco con il caso Schleyer e il dirottamento dell'aereo Lufthansa 181. Fassbinder (e con lui Périot) fa il punto della situazione: la RAF esige la liberazione dei propri leader; Meinhof, Baader, Ensslin e altri sono rinchiusi nel carcere di massima sicurezza di Stammheim (Stoccarda), in isolamento totale, spogli anche dei flebili diritti di un comune detenuto. Schmidt non cede. Il popolo tedesco esige sicurezza ... Non piegarti, Stato, Uccidili... Ed ecco il "climax Fassbinder”. A cena da sua madre, urla e sbraita contro l'ipocrisia della borghesia tedesca: non si può volere democrazia solo quando conviene. Ideologicamente spalle al muro, la madre alla fine lo deve ammettere: ci vorrebbe "un potere autoritario, ma che sia buono, giusto e gradevole". Ah-ah-ah...

Il merito di Périot è di aver annichilito il semplicismo del bianco & nero: è un cazzotto di grigi quello che colpisce la nuca dello spettatore, il democratico latente, per convenienza, che è in ognuno di noi. Non si può rispondere con prosopopea alle domande che il terrorismo fa irrompere sulla scena quotidiana se prima il terrorismo non lo si indaga nei suoi moventi profondi. Il parallelo col presente viene così umilmente stabilito. Périot, d'altronde, ha definito questo suo film come "un lavoro per capire". Capire la RAF, come anche capire le debolezza della democrazia della Germania anni 70 o della democrazia del mondo occidentale contemporaneo. Contro questa debolezza bisogna agire. L’assoluta necessità di rinvigorire la democrazia ci impone di trovare prima una risposta moderna 721 cultura a una domanda antica: quale democrazia? Se si vuole democrazia vera e concreta, bisogna caricarsela sulle spalle, tirarsi su le maniche, esserne in una parola responsabili. Che governo del popolo è se il popolo è "democraticamente" emarginato, circuito, irretito? Per concludere con le parole di Périot, "siamo tutti responsabili per qualsiasi tipo di violenza ... siamo tutti parte del problema, come siamo tutti parte della soluzione".

 

Nicolò Comotti

 

Alcune considerazioni

Lo scritto di Comotti affronta una materia come quella della "violenza rivoluzionaria" su cui "A" esprime da decenni posizioni precise di rifiuto delle strategie lottarmatiste e delle azioni di violenza indiscriminata. E la affronta con un taglio che ci lascia a dir poco perplessi.

Per questo, nel pubblicare lo scritto di Comotti, abbiamo chiesto al nostro collaboratore Andrea Papi una sua riflessione. Come sempre, lo spazio di “A" è aperto al dibattito. Su questo tema come su tutto il resto.

Leggendo il pezzo di Comotti sul film Une jeunesse allemande di Jean-Gabriel Périot, sono rimasto incuriosito e mi son fatto l'idea che si tratti di un film che senz'altro andrò a vedere non appena ne avrò l'opportunità. Interessante in particolare la tesi che sviluppa di dar voce alle ragioni dei "terroristi" al di là di ogni stereotipo ufficiale su di loro. Allo stesso tempo mi ha colpito il fatto che chiami, appunto, "terroristi" i componenti della RAF, esattamente con lo stesso linguaggio dello stato, mentre per come è sviluppato il pezzo di Comotti mi ha lasciato dell'amaro in bocca.

L’ho percepito, purtroppo, impregnato del solito problema, almeno per me è tale. Un sentore giustificazionista dell'azione, come l'ha definita lui, terrorista. Non è un'adesione vera e propria, intendiamoci bene, mentre rischia di diventare, consapevolmente o no ha poca importanza, un'esagerata giustificazione, in un periodo terribile per queste cose, in cui sta diventando luogo comune definire "terroristi" più o meno tutti gli oppositori.
tacciati come radicali, dall'lsis ai centri sociali.

Il problema in fondo non sono le ragioni che fanno scegliere di diventarlo, come sembra suggerire il film almeno secondo Co motti, ma se ha avuto ed ha senso farlo.

Prendendo spunto proprio dal soggetto che tratta, la RAF tedesca meglio nota come Baader-Meinhof, mi sembra di poter dire che non si è solo dimostrata perdente, ma, al di là della loro volontà, nei fatti si è trasformata in incoerenza completa rispetto al bisogno di liberazione che avrebbe voluto far emergere. Senza soffermarsi sul fatto che la loro scelta ideologica è di tipo para-leninista, quindi proponente un tipo di dittatura che la storia del bolscevismo ha ampiamente condannato, non sono riusciti a trascinare le agognate "masse proletarie" nella loro azione presunta rivoluzionaria e sono stati spinti al suicidio delle loro scelte. Se magari sul piano della critica al sistema di cose presente potremmo in gran parte trovarci sulla stessa lunghezza d'onda, è invece sul piano dell'alternativa che proponevano oltre alla qualità della scelta d'azione che c'è la più completa divergenza. Se perciò possiamo provare qualche simpatia per le ragioni che hanno spinto i componenti dalla RAF a diventare ciò che sono stati, c'è al contrario un netto rifiuto delle loro scelte di vita e d'azione.

Capisco che Comotti voleva solo parlare del film, che senz'altro è portatore di qualche valore, e che giustamente non voleva fargli nessun cappello. Ha fatto bene! Ma per noi questa !ematica è tuttora carne e sangue ancori vivi, per cui è indispensabile chiarire questioni che, sempre per noi, restano fondamentali e imprescindibili.

 

Andrea Papi

 

La replica

Cara redazione di "A", caro Papi,

Mi divincolo dalle perplessità – mantenendo spero una certa grazia - e cerco di tirare un paio di cordicelle per fare abbassare le sopracciglia di tutti.

Mi rammarica che la mia recensione sia stata interpretata come una giustificazione/apologia della violenza. D'altro canto, sinceramente, chiedo a Papi e ai lettori di indicarmi i punti del mio testo in cui quest'elogio prenda forma... La mia recensione mirava a riprendere la RAF e analizzarla con uno sguardo prettamente storico, anzi, antropologico.

Detto questo, sono contento che almeno a Papi sia venuta voglia di andare a vedere il film, perché questo era esattamente lo scopo della mia - come di ogni - recensione.
Per quanto riguarda il vero dibattito...guardate Une Jeunesse Allemande, poi ne riparliamo!

Un saluto a tutti.

 

Nicolò Comotti
A, Rivista anarchica
Febbraio 2016